Noseda, “Elias“ e l’uomo radicale: "Nella rossa Sesto andavo a messa. Se hai un talento, devi condividerlo"

Elia è furioso con il suo popolo idolatra e pagano, sa che esiste un unico Dio e lo annuncia ma, nonostante tutto, i dubbi lo assalgono. Figura fra le più complesse dell’Antico Testamento ha ispirato a Felix Mendhelsson "Elias" un oratorio in due parti, testo scritto in collaborazione con il teologo Schubring (1846). Capolavoro assoluto della musica sacra europea -quasi mai eseguito in Italia- "Elias" è rinato sotto la sapiente bacchetta di Gianandrea Noseda al Zürich Opernhaus in una versione scenica firmata Andreas Homoki. Una direzione intelligente, colta e sensibile di uno dei maggiori direttori al mondo e, purtroppo, sempre meno presente nel nostro Paese. Nato a Sesto San Giovanni, formatosi al Conservatorio di Milano Gianandrea Noseda, ha ricevuto lo scorso anno l’Ambrogino d’Oro; è Direttore Musicale della National Symphony Orchestra di Washington, General Musik Direktor dell’Opernhaus di Zurigo dove la scorsa stagione ha realizzato il suo primo premiatissimo, "Ring" wagneriano.
Maestro Noseda, chi è Elia? "Un outsider, non gli interessa nulla di ciò che la gente pensa di lui, dice quel che deve dire. È un uomo radicale nel suo messaggio. È una figura forte che non accetta compromessi e ne paga le conseguenze, annuncia la verità anche se nessuno vuole sentirla. La sua gente cambia idea rapidamente, allora come oggi. Se parli alla pancia del popolo riesci a manipolarlo completamente. Questo è preoccupante".
Il Profeta combatte l’idolatria, lo stesso male che affligge la nostra epoca. La musica può aiutare a sconfiggerla? "La musica vive nel tempo e, in quello spazio di tempo, rivive e si sviluppa. La vita di oggi nega il tempo, dobbiamo essere rapidi, non siamo più noi a gestire le nostre giornate ma altri fattori che ci spingono ad agire. Siamo sempre connessi. La musica non conosce questa dimensione, ti chiede di rimanere seduto più di un’ora ad ascoltarla; ti lascia libero di annoiarti o di farti trasportare dalla sua bellezza. La musica insegna a essere liberi, a scegliere. E’ il linguaggio delle emozioni, l’antidoto alle nostre giornate frammentate. Finché ci saranno sulla terra uomini e donne esisterà l’amore, la pietas e il dolore, sentimenti che la musica accoglie e racconta".
Da Washington. Londra, Zurigo come vede l’Italia e la nostra musica? "Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il mio Paese, il Regio di Torino è nella mia storia; ho un rapporto continuativo con la Scala, con Santa Cecilia, suonerò al Maggio di Firenze. La qualità delle orchestre italiane è alta, possono competere con quelle internazionali, non era così 20 anni fa. Musicisti italiani lavorano nelle orchestre straniere e stranieri arrivano da noi. Siamo spesso visti come giullari di corte, dobbiamo far divertire. La musica non è solo intrattenimento, è arte scomoda, è lo specchio in cui ti rifletti e vedi la tua anima".
Si è formato a Milano. Cosa crede di avere ricevuto? "Sono nato a Monza, cresciuto a Sesto San Giovanni e ho studiato a Milano. Luoghi che amo ancora oggi. Da ragazzo Sesto era il “punto rosso“ della “bianca Brianza“, c’erano gli operai della Falck, della Magneti Marelli, della Breda, della Campari; tutti erano comunisti ma la domenica ci trovavamo in chiesa per la messa. Sesto San Giovanni mi ha insegnato il valore assoluto per i diritti civili, sociali, le rivendicazioni; era una cittadinanza attiva, vivace che manifestava contro le diseguaglianze. Diritti, doveri, disciplina per tutti, non solo lotta ma empatia, compassione. Non dividerò mai questi valori. Se hai un talento, se hai qualcosa in più devi condividerla con gli altri. La Pira aveva partecipato come sindaco di Firenze agli scioperi per le mense delle fabbriche della sua città, a chi lo accusava di essere diventato comunista rispondeva: “Metto in pratica il Vangelo“".
E dal Conservatorio? "Tantissimo ma vorrei ricordare un corso, oggi scomparso, intitolato “Avviamento al teatro lirico“. Noi dovevamo saper suonare, esser pronti a suggerire, dirigere una prova d’opera o una prova di sala. Imparavamo a fare qualsiasi cosa, ci davano accesso a questo artigianato ed entravamo in relazione con tutti".
Il Giorno